Da un articolo di Massimo Fini

Sui fattacci di Rosarno anche la stampa più bieca e razzistaèstata costretta a prendere le parti degli immigrati (�Hanno ragione i negriù, ha titolato il Giornale, 9/1), sfruttati fino all’osso per i famosi lavori che �gli italiani non vogliono più fare�, costretti a vivere in case di cartone e, come se non bastasse, presi anche a pallettoni. Edèassolutamente ipocrita chiamarli �neriù, in linguaggio politically correct, come fa la sinistra se poi li si tratta da �negriù cheèil senso ironico del titolo di Feltri. Quando però si analizzano le cause di queste migrazioni ormai bibliche, che portano a situazioni tipo Rosarno in Europa e negli Stati Uniti, la stampa occidentale resta sempre, e non innocentemente, in superficie. Si dice che costoro sono attratti dalle bellurie del nostro modello di sviluppo. Ora, no c’� immigrato che non possegga almeno un cellulare e che non sia in grado di avvertire chièrimasto a casa di che �lacrime grondi e di che sangue� questo modello, per tutti e in particolare per chi, come l’immigrato,èl’ultima ruota del carro.
Si dice allora che costoro sono costretti a venire qui a fare una vita da schiavi a causa della povertà e della fame che strazia i loro Paesi. E questoèvero. Ma non si spiega come mai queste migrazioni di massa sono cominciate solo da qualche decennio e vanno aumentando in modo esponenziale. In fondo le navi esistevano anche prima e pure i gommoni. Il fatto che gli immigrati di Rosarno siano prevalentemente provenienti dall’Africa nera ci d� l’opportunità di spiegarlo.
L’opinione pubblica occidentale, anche a causa della disinformatia sistematica dei suoi media,èconvinta che la fame in Africa sia endemica, che esista da sempre. Nonècosì. Ai primi del Novecento l’Africa nera era alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza (al 98%), nel 1961. Ma da quando ha cominciato ad essere aggredita dalla pervasività del modello di sviluppo industriale alla ricerca di sempre nuovi mercati, per quanto poveri, perchè i suoi sono saturi, la situazioneèprecipitata. L’autosufficienzaèscesa all’89% nel 1971, al 78% nel 1978. Per sapere quello cheèsuccesso dopo non sono necessarie le statistiche, basta guardare le drammatiche immagini che ci giungono dal Continente Nero o anche osservare a cosa siano disposti i neri africani, Rosarno docet, pur di venir via.
Cos’� successo? L’integrazione nel mercato mondiale ha distrutto le economie di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) su cui quelle popolazioni avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni, oltre al tessuto sociale che teneva in equilibrio quel mondo (comeèavvenuto in Europa agli albori della Rivoluzione industriale quando il regime parlamentare di Cromwell, preludio della democrazia, decretà la fine del regime dei �campi apertiù (open fields), cosa a cui le case regnanti dei Tudor e degli Stuart si erano opposte per un secolo e mezzo, buttando così milioni di contadini alla fame pronti per andare a farsi massacrare nelle filande e nelle fabbriche così ben descritte da Marx ed Engels). Oggi, nell’integrazione mondiale del mercato, nella globalizzazione, i Paesi africani esportano qualcosa ma queste esportazioni sono ben lontane dal colmare il deficit alimentare che sièvenuto così a creare. E quindi la fame.
Senza per questo volerlo giustificare il colonialismo classicoèstato molto meno devastante dell’attuale colonialismo economico. Fra i due c’� una differenza sostanziale, di qualità. Il colonialismo classico si limitava a conquistare territori e a rapinare materie prime di cui spesso gli indigeni non sapevano che farsi, ma poich� le due comunità rimanevano separate e distinte poco cambiava per i colonizzati che, a parte il fatto di avere sulla testa quegli stronzi, continuavano a vivere come avevano sempre vissuto, secondo la loro storia, tradizioni, costumi, socialità, economia.
Il colonialismo economico, invece, ha bisogno di conquistare mercati e per farlo deve omologare le popolazioni africane (come del resto le altre del cosiddetto Terzo Mondo) alla nostra way of life, ai nostri costumi, possibilmente anche alle nostre istituzioni (la creazione dello Stato, per soprammercato democratico o fintamente democratico, ha avuto un impatto disgregante sulle società tribali), per piegarle ai nostri consumi. In Africa si vedono neri con i RayBan (con quegli occhi!) e il cellulare, che costano niente, ma manca il cibo. Perchè il cibo non va dove ce n’� bisogno, va dove c’� il denaro per comprarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale, al bestiame dei Paesi industrializzati, seèvero che il 66% della produzione mondiale di cerealièdestinato alla alimentazione degli animali dei Paesi ricchi (dato Fao). E adesso ci sièmessa anche la Cina, new entry in questo gioco assassino, che compra, con la complicità dei governanti corrotti, intere regioni dell’Africa nera la cui produzione, alimentare e non, non va ai locali, sfruttati peggio degli immigrati di Rosarno, ma finisce a Pechino e dintorni. Ma l’invasione del modello di sviluppo egemone ha anche ulteriori conseguenze, quasi altrettanto gravi della fame. Sradicati, resi eccentrici rispetto alla propria stessa cultura cheèfinita nell’angolo, scontano una pesantissima perdita di identità. A ciù si devono le feroci guerre intertribali cui abbiamo assistito, con ipocrita orrore, negli ultimi decenni. Perchè le guerre in Africa, sia pur con le ovvie eccezioni di una storia millenaria, avevano sempre avuto una parte minoritaria rispetto alla composizione pacifica fra le sue mille etnie (J.Reader, �Africa�, Mondadori, 2001). E così fra fame, miseria, guerre, sradicamento, distruzione del loro habitat, costretti a vivere con i materiali di risulta del mondo industrializzato (si vada a Lagos, a Nairobi o in qualsiasi altra capitale africana) i neri migrano verso il centro dell’Impero cercandovi una vita migliore. O semplicemente una vita. E i nostri �aiutiù, anche quando non sono pelosi, non solo non sono riusciti a tamponare il fenomeno della fame e della miseria, in Africa e altrove, comeèemerso dal recente vertice della Fao tenuto a Roma, ma l’hanno aggravato perchè tendono ad integrare ulteriormente le popolazioni del Terzo Mondo nel mercato unico mondiale, stringendo così ancor di più il cappio intorno al loro collo. Alcuni Paesi e intellettuali del Terzo Mondo lo avevano capito per tempo. Una ventina di anni fa, in contemporanea con una delle periodiche riunioni del G7 (allora c’era ancora il G7), i sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l’africano Benin, organizzarono un polemico controsummit al grido: �Per favore non aiutateci più!�. Ma non vennero ascoltati.

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